Riflessioni, prima
scheda tecnica e finalità della legge c.d. “jobs act” 13 maggio 2014
(conversione decreto legge n° 34 del 20 marzo 2014), a cura della USI
Unione
Sindacale Italiana fondata nel 1912 –
Segreteria Generale Nazionale
Confederale
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C’ERA UNA VOLTA…IL RAPPORTO DI LAVORO CON DELLE
GARANZIE…
Questo documento e scheda non è ovviamente
esaustivo, intanto focalizziamo le variazioni su contratti tipici e tipizzati
che erano entrati nel patrimonio di conoscenze comuni di tutti-e coloro che si
occupano di “diritto del lavoro” e dei rapporti di lavoro, stratificatisi nel
tempo e le modifiche poste dalla legge (approvata il 13 maggio dal
Parlamento con “voto di fiducia” posto dal Governo Renzi, che ha convertito in
legge il decreto n° 34 del 20 marzo 2014 detto “jobs act”). Avremo poi il
tempo e la pratica non solo per conoscerne meglio i dettagli, ma soprattutto
dal nostro punto di vista, quello operaio e sindacalizzato autorganizzato, di
verificarne la compatibilità con il generale ordinamento giuridico anche
europeo e trovare le contromisure, per ridurne la portata penalizzante per
lavoratori e lavoratrici e magari anche il suo annullamento o superamento.
UN
FATTORE DEVE ESSERE CHIARO E CERTO, OGNI MODIFICAZIONE MIGLIORATIVA, RISPETTO
ALLE VARIAZIONI DEL RAPPORTO DI LAVORO E DELL’USO DEI CONTRATTI DI LAVORO DI
MAGGIORE FLESSIBILITA’, RICATTABILITA’ E PRECARIETA’, COME QUELLI INSERITI
NELLA NUOVA LEGGE SULLA QUALE CI STIAMO CONFRONTANDO, O TROVA I NECESSARI RAPPORTI
DI FORZA NELLE CLASSI LAVORATRICI E NEI SETTORI COLPITI PIU’ CHE
“INTERESSATI” DA QUESTI PROVVEDIMENTI, PER CONTRASTARLO EFFICACEMENTE, DANDO
ANCHE STRUMENTI E “APPIGLI” DI INTERVENTO IN SEDE GIUDIZIARIA (che non può
sostituirsi da sola, in assenza di conflitto e resistenza dai luoghi di lavoro
o dai territori, a questa opera di smantellamento) PER ELIMINARNE O RIDURNE, su
alcuni aspetti e articoli del provvedimento legislativo, LA PORTATA DISTRUTTIVA,
o diventa un semplice esercizio accademico, di studio e di approfondimento, ma
senza alcuna vera UTILITA’ SOCIALE E COLLETTIVA CONCRETA.
Si, parliamo di “classi lavoratrici”, lo
scriviamo e le definiamo al plurale, perché prendiamo atto della scomposizione
e della frammentazione in corso e della sua fase avanzata, finalizzata a
spezzare ogni legame di solidarietà, di unificazione e di autodifesa
collettiva, tesa a rompere nei suoi effetti materiali anche con queste
modificazioni giuridico tecniche, la “rigidità” del rapporto di lavoro a tempo
indeterminato e ogni rigidità operaia, tecnica, impiegatizia, che a partire
dalle condizioni materiali di lavoro, abbia ancora garanzie certe, esigibili da
tutti-e e che trovi la sua consacrazione in quella che una volta era il
“diritto del lavoro”.
Siamo consapevoli che allo stato attuale, i
rapporti di forza non ci sono favorevoli in termini effettivi, anche se
potenzialmente siamo più dei nostri “padroni” e governanti, come siamo anche
consapevoli che o si riesce ad articolare una rete che sviluppi il conflitto e
trovi i necessari “grimaldelli” anche sul piano tecnico giuridico, a partire
dai posti di lavoro e dai territori sul piano nazionale, ricorrendo anche
all’intervento di livello europeo, oppure tutta la fase preliminare di studio e
di approfondimento, è destinata ad avere scarsa efficacia.
Né possiamo delegare alla fase negoziale e
contrattuale, di vario livello, la capacità di “ridurre il danno”, poiché le
fasi ulteriori di questo processo “involutivo” anche nel Paese come l’Italia
che era considerata la “culla del diritto” (oggi ne sta diventando la tomba…)
avranno i suoi ulteriori corollari nelle modifiche strutturali, più di quelle
restrittive e liberticide che oggi conosciamo e con le quali ci confrontiamo da
lavoratori e lavoratrici sindacalizzati-e o comunque in lotta, alla struttura
del contratto e del rapporto di lavoro “a tempo indeterminato”, che era l’idea
degli stessi padri costituenti all’articolo 1 della Costituzione repubblicana e
antifascista del 1948, nonché al complesso delle “relazioni sindacali
industriali” e al modello di rappresentanza nei luoghi di lavoro e a livello
negoziale-contrattuale, attraverso interventi legislativi di fonte governativa
(ratificati anch’essi da “voti di fiducia” in sede parlamentare) che saranno la
consacrazione di tutti gli accordi di questi ultimi anni, ultimo ma non ultimo
quello (illegittimo e anticostituzionale per violazione pure del “combinato
disposto” degli artt. 2, 3 e 39 1° comma della vigente Costituzione…) del 10
gennaio 2014.
La necessità di comprendere alcuni
elementi, confrontarli con l’esperienza passata specie per il contratto di
apprendistato, quello a tempo determinato e l’utilizzo del lavoro “in
somministrazione” (già interinale, in affitto), quindi la forza lavoro in formazione (studenti e studentesse), la forza lavoro
“giovanile” (si fa per dire…) e per chi si trova già alle prese con
procedure di “ammortizzatori sociali”, quindi la forza lavoro già sfruttata e da collocare o da espellere dai processi
produttivi, per sostituirla con quella più flessibile, ricattabile, precaria e
a costo minore, è di fondamentale importanza e rilevanza dal nostro punto
di vista, per avere un quadro più completo anche con le
riforme-ristrutturazioni in via di definizione, del settore dell’istruzione.
L’ASSE STRATEGICO DI CONTROLLO PADRONALE E
DI CHI RAPPRESENTA INTERESSI ECONOMICO FINANZIARI E DI SPECULAZIONE nelle
istituzioni governative non solo nazionali, sulla pelle e sulla vita di coloro
che lavorano per vivere (ma non aspirano nella maggioranza dei casi, a…vivere
per lavorare e a condizioni pessime …), del trittico
ISTRUZIONE-FORMAZIONE-COLLOCAMENTO, è a un bivio fondamentale, da parte nostra
collegarne e conoscerne i meccanismi, può permetterci di individuarne i punti
deboli e le contraddizioni, per poterne magari inceppare il funzionamento.
Contratto
a tempo determinato: le sue origini storiche in Italia sono datate al 1962,
con la legge 230, che per molti anni ne fu la disciplina fondamentale, poi
integrata con l’articolo 23 della legge 56 del 1987, oltre alle indicazioni
inserite nei contratti collettivi nazionali di lavoro (CCNL), con le modifiche
prodottesi con il Decreto Legislativo 368 del 2001 (più volte modificato e
integrato), applicativo con molto ritardo in Italia delle direttive comunitarie
(in particolare con la 70 del 1999), che ormai fanno parte del nostro complesso
ordinamento giuridico. Ulteriori modifiche sono state poste dai decreti
attuativi della legge 30 del 2003 (D. Lgs. 276/2003), dal D. Lgs. 247 del 2007
e anche dal c.d. “collegato lavoro” D. Lgs. 183/2010 e dalla legge
“Fornero”92/2012.
Oltre ai casi specifici di contratti e
rapporti di lavoro con l’apposizione di un termine (come vedremo per
l’apprendistato, per i rapporti e contratti di inserimento per la collocazione
e la qualificazione di forza lavoro di età inferiore ai 30 anni…o di particolari
forme di lavoro “flessibile”), le discipline di fonte legislativa dal 1962 e di
fonte “pattizia” cioè i CCNL di categoria o di comparto, prima dell’avvento del
D. Lgs. 368/2001, ponevano la possibilità di assunzione a termine come legata a
specifiche “causali”, quindi a eventi codificati anche abbastanza numerosi come
casistica e fattispecie orientativa, poiché era ancora evidente il retaggio
storico e il “messaggio” della Costituzione del 1948, che indicando
all’articolo 1 che la Repubblica era fondata “sul lavoro”, rendeva implicito il
lavoro salariato ma anche quello in forma cooperativa, ma sulla base che il
rapporto di lavoro fosse, di regola, quello a tempo indeterminato, limitando la
sua restrizione all’utilizzo temporale definito a precise casistiche.
Non così il Decreto Legislativo (D. Lgs.
368/2001 e modificazioni successive), applicativo della direttiva europea del
1999, che superando le “causali specifiche”, stabiliva che l’assunzione a
termine fosse ammessa “a fronte di ragioni di ordine tecnico, produttivo
organizzativo o sostitutivo”, che andavano comunque specificate nell’atto
scritto di assunzione. La normativa in vigore dal 2001, apportava alcune
modifiche che, rispetto alle previsioni pattizie di molti CCNL (specie nel
settore privato del terziario, turismo, servizi, artigianato…) rafforzava
alcuni diritti di lavoratori e lavoratrici a termine, quindi con una finalità
di ridurre, con una regolamentazione generale e astratta, tipica delle leggi,
rispetto ai contratti collettivi e a quelli individuali, l’uso improprio (per
sostituire dipendenti in sciopero, per sostituire personale sottoposto a
licenziamenti collettivi e a procedure di ammortizzatore sociale, salvo diversi
accordi sindacali, per le stesse mansioni, se vi erano state nello stesso posto
di lavoro riduzioni di orario del personale in organico, per le aziende che non
facevano ed era accertata, la violazione della valutazione dei rischi per la
salute e sicurezza…) e di maggiore
sfruttamento tipico del lavoro salariato e delle condizioni di garanzia durante
lo svolgimento concreto del rapporto di lavoro (non era ammessa la forma
scritta e le garanzie tipiche poste dalla legge, se si trattava di lavoro
“occasionale” inferiore ai 12 giorni...), aggirando le disposizioni di garanzia
all’epoca esistenti (poi bisognava vedere se fossero rispettate e applicate).
Importante era la questione delle proroghe dei contratti a termine
sottoscritti e attivi, nel quale era necessario non solo il consenso del
lavoratore-lavoratrice, ma che era rilevante se il contratto a tempo
determinato, nella sua durata iniziale, era inferiore ai tre anni. Era
ammessa una sola proroga e a condizione che fosse determinata da ragioni
oggettive, che fosse riferita alle stesse attività lavorative per le quali era
stato stipulato il primo contratto a tempo determinato. L’onere della prova era
a carico del datore di lavoro, per le condizioni oggettive, inoltre con
esclusivo riferimento a tale ipotesi di proroga, la durata complessiva del
rapporto di lavoro a termine non poteva essere superiore a 3 anni.
Quindi, se la durata del rapporto di lavoro
fosse stata superiore ai tre anni, non era ammessa alcuna proroga. Non erano
ammesse in applicazione del principio di “non discriminazione”, trattamenti
differenziati rispetto al personale a tempo indeterminato (a tempo pieno o part
time), in ordine alle ferie, al Tfr (liquidazione), ai permessi, ai ratei di
13° (o di 14° mensilità), a parità di livello di inquadramento, qualifica o
criterio di classificazione del personale secondo il CCNL preso a riferimento,
inoltre se lavorava per un tempo pari o superiore ai 6 mesi, anche non
continuativi presso la stessa azienda, il dipendente a tempo determinato poteva
fare richiesta scritta di prosecuzione del rapporto lavorativo (al di là dei
tempi di sospensione previsti per legge e per contratto, 20 giorni se il
rapporto era superiore o pari ai sei mesi e 10 giorni se il rapporto di lavoro
e il relativo contratto scritto erano inferiori ai 6 mesi, per l’utilizzo dello
stesso personale a tempo determinato) e di esercizio del “diritto di prelazione
e di precedenza”, rispetto ad altri da assumere per le stesse mansioni e
attività, sia a tempo determinato che a tempo indeterminato (modificazione
introdotta e specificata nel D. Lgs. 247 del 2007, articolo 1 comma 40,
integrativa del D. Lgs. 368/2001, articolo 5 comma 4-quater). Era inoltre
obbligatoria la formazione sufficiente del dipendente a tempo determinato, allo
scopo di prevenire rischi specifici connessi all’esecuzione del lavoro (una
disposizione non solo relativa alla formazione e informazione sul tipo di
attività, ma connessa agli obblighi del datore di lavoro in materia di
salute e sicurezza nei luoghi di lavoro). In caso di violazione accertata
dei vari obblighi e adempimenti, era previsto un meccanismo sanzionatorio,
sia di natura economica (maggiorazioni retributive in caso di prosecuzione del
rapporto di lavoro oltre il termine apposto originariamente, dal 20% fino
al 10° giorno fino al 40% per il periodo ulteriore) e nei casi più gravi
(sempre quelli accertati, però quindi era necessario un intervento o sindacale
o del diretto interessato-a in sede giudiziaria o di controllo degli organismi
di vigilanza) l’assunzione era considerata fin dall’origine a tempo
indeterminato. Attenzione quindi al meccanismo di rinnovi e di proroghe…
COSA
CAMBIA CON LE NUOVE NORME: la giustificazione è che va superata la
rigidità esistente nella precedente normativa, che poneva “troppi vincoli” e
impediva alle aziende di poter assumere, specie giovani, quindi come cita anche
la denominazione del decreto legge convertito il 13 maggio 2014, si trattava di
provvedimenti urgenti per favorire l’occupazione giovanile e la semplificazione
delle procedure a carico delle imprese. Fermo restando che per esperienza
centenaria nell’Usi di varie generazioni, si ritiene poco attendibile che una diminuzione
di garanzie e controlli possa creare tutta questa nuova occupazione e sia
“buona occupazione”, tale da permettere alle giovani generazioni di costruirsi
un futuro dignitoso, vediamo che le principali MODIFICHE PEGGIORATIVE RISPETTO
AL QUADRO NAZIONALE ESISTENTE E I DUBBI SUL TENTATIVO DI “AGGIRAMENTO” CON LE
NUOVE DISPOSIZIONI ITALICHE, delle Direttive europee, dubbi che per noi
rimangono, vanno a colpire innovando i seguenti aspetti, introducendo maggiore
flessibilità, maggiore ricattabilità, minori garanzie, maggiore precarietà e
minori controlli e sanzioni meno “deterrenti” in termini di efficacia, per
le aziende e imprese, anche cooperative, che vogliano usare tale nuova
normativa per avere forza lavoro sfruttabile, a minor costo, con maggiore vantaggio
e per tenersi, in tempi di crisi permanente, la possibilità di avere un minimo
margine di profitto e migliori opportunità di competitività sul mercato,
rispetto a Paesi e zone del pianeta, dove vige un regime di semi – schiavitù.
La
prima modifica è relativa alla
eliminazione di fatto delle “causali”,
quindi non sarà più necessario indicare la ragione oggettiva di natura tecnica
od organizzativa che determina la richiesta di assunzione e uso di forza lavoro
a tempo determinato.
Nemmeno la legge “Fornero” del 2012 era arrivata a tanto, poiché questa la
limitava al primo contratto, ora la legislazione attuale introduce tale
liberalizzazione giuridico tecnica a tutto il periodo massimo di utilizzo a
tempo determinato (36 mesi).
La
seconda modifica, è relativa al numero delle “proroghe” ammesse, 8 nel testo
del decreto legge e poi ridotte a 5, ma si
tratta a nostro avviso di un falso problema. Non è il numero delle proroghe
maggiore o minore quello che ci preoccupa, ma il fatto che rimane poco chiaro
(lo era nel testo del decreto legge n° 34 del 20 marzo 2014) è che nulla si
dice come interpretazione autentica e chiarificatrice, sul collegamento del
numero massimo di proroghe durante la fase temporale massima del contratto a
termine (36 mesi) rispetto ai RINNOVI, che potrebbero in assenza di un “tetto
massimo”, far lievitare molto la possibilità per imprese e aziende, anche
cooperative, di utilizzo della forza lavoro a tempo determinato, prima di
prevedere un eventuale passaggio a tempo indeterminato.
La legge non fissa un tetto massimo per i
rinnovi (che quindi con un intervallo di 10 o di 20 giorni di pausa, restano
potenzialmente infiniti) come per le “proroghe”, nell’arco dei 36 mesi massimo
di uso del tempo determinato.
Il rischio che si corre, con
un’applicazione e una interpretazione poco corretta, è che se le 5 proroghe
massime nell’arco dei 36 mesi siano
effettivamente distribuite in questo arco temporale, non 5 proroghe ad ogni
rinnovo (con pausa di 10 o 20 giorni), altrimenti facendo per esempio contratti
mensili, tra rinnovi e le 5 proroghe svincolate da questi, la durata di
“sfruttamento” diventava molto superiore ai 36 mesi del tempo determinato.
La
terza modifica è relativa alle
aziende alle quali è imposto un vincolo di conversione a tempo indeterminato
rispetto al numero dei contratti a tempo determinato sottoscritti, per poterne
stipulare altri, si
tratta delle aziende sotto i 15 dipendenti (quelli ai quali non si
applicherebbe la L. 300/70 per le Rsa e i diritti di costituzione di
rappresentanze sindacali aziendali) e quelle sotto i 10 dipendenti (5 per le
aziende agricole), vincolo stabilito nella misura percentuale del 20%. La
medesima percentuale è relativa (salvo maggiori flessibilità e percentuali più
late disposte dai CCNL) al numero massimo di persone utilizzabili a tempo
determinato, rispetto al numero di dipendenti in organico nelle aziende e
imprese, anche cooperative.
La
quarta modifica, è relativa al
meccanismo delle sanzioni, nei casi accertati (figuriamoci quelli NON
accertati) di violazione delle nuove regole, sono infatti previste SOLO
SANZIONI PECUNIARIE di MULTE dal 20% fino a un massimo del 50% della
retribuzione del lavoratore (e nemmeno particolarmente alte, tali da
farle considerare un effetto “deterrente” efficace per chi non rispetta la
nuova disciplina legislativa, considerati i blocchi delle contrattazioni
collettive e i salari bassi) e non vi è
più l’obbligo, come era previsto in precedenza, nei casi più gravi, di
considerare illegale e illegittimo il contratto a tempo determinato, a partire
dal primo stipulato, con la conversione di tutto il rapporto di lavoro a tempo
indeterminato fin dall’inizio.
Quindi è ufficializzato, come già con la
Legge 30 del 2003 e i decreti attuativi, il meccanismo di natura RISARCITORIA e
di stampo mercantile, in materia di rapporti di lavoro nei casi di violazione
padronale, senza più la tutela reale che era tipica del nostro ordinamento,
come nei casi di “licenziamento discriminatorio”, preferendo quindi un metodo
più vicino alla tutela del sistema nord-americano e anglosassone, del diritto civile
e commerciale applicato anche ai rapporti di lavoro dipendente, che assicurano
un risarcimento monetario (tutela obbligatoria) del danno subito dalla parte
contrattuale più debole (chi lavora), sulla base di un falso presupposto che
invece è tipico di altre forme negoziali-obbligatorie, come la compravendita,
dove le due parti contraenti sono su un piano di negoziazione tendenzialmente
paritaria (una cosa è vendere e comprare un’automobile, altra cosa è lo scambio
di prestazione lavorativa per un salario nell’ambito di un rapporto e di un
contratto di lavoro subordinato). Del resto, dopo le modifiche all’articolo 18
della Legge 300 del 1970, la breccia che si è aperta in termini di tutela tra
quella obbligatoria/risarcitoria e quella reale/reintegrazione nel posto di
lavoro, che è diventata residuale, è notevole.
GLI ENTI DI RICERCA sono esclusi sia dal
rispetto del limite massimo dei 36 mesi per i contratti a termine, che per il
limite del 20% di conversione dei contratti stipulati, per poterne sottoscrivere
altri rispetto al numero del personale in organico.
CONTRATTO
DI APPRENDISTATO: la prima legge che in Italia ha disciplinato
l’apprendistato, è del 1955 con la L. N° 25, con la L. 30/2003 e il D. Lgs.
276/2003 (articoli da 47 a 53) vi è la prima trasformazione di quello che nel
nostro ordinamento, rimane l’unica forma tipica a “causa mista”, cioè con
formazione e lavoro, trasformato dal 2003 in un contratto e percorso formativo
legato al mercato del lavoro, con tre tipologie diversificate, per
l’ottenimento di una qualifica professionale (istruzione e formazione), per
giovani ed adolescenti che abbiano compiuto 15 anni di età, di tipo “professionalizzante” (per persone di
età compresa tra i 18 e i 29 anni), legato quindi ad un apprendimento tecnico-professionale
e una formazione sul lavoro anch’essa finalizzata al conseguimento di una
qualifica professionale, oppure per l’ottenimento di un diploma o per dei
percorsi di formazione di livello universitario o di specializzazione tecnica
superiore (rivolto a persone di età compresa tra i 18 e i 29 anni di età,
oppure per quelli già in possesso di una qualifica professionale, se hanno
compiuto 17 anni di età). La durata dell’apprendistato, variabile a seconda del
tipo di contratto, da un minimo di 3 per il primo tipo, da 2 a 6 anni per
quello professionalizzante e secondo quanto definito nei rispettivi CCNL, con
definizione anche per l’ultima tipologia di apprendistato, in ambito regionale,
così come sono disciplinate in maniera diversa la formazione in termini di
contenuto, di quantità di ore interne ed esterne all’azienda e le modalità di
svolgimento dell’attività formativa, sono disciplinate secondo le previsione
del D. Lgs. 276 del 2003 in ambito Regionale.
Per orario di lavoro (limite 8 ore giornaliere
e 44 settimanali, per gli adolescenti il limite è di 40 ore e divieto di lavoro
notturno tra le 22 e le 6), l’inquadramento (gli apprendisti possono essere
inquadrati fino a due livelli sotto quello corrispondente alla qualifica finale
da acquisire secondo il CCNL preso a riferimento) e la retribuzione, la
disciplina può essere specificata dalle contrattazione collettiva o prevista
come nel caso del trattamento economico, dai CCNL anche con accordi integrativi
nazionali, anche con una retribuzione inferiore in termini percentuali (ad
esempio, l’85% per il primo anno e il 90% per gli anni successivi) rispetto a
quella “normale” del livello di inquadramento preso come riferimento per il
contratto di apprendistato.
COME
CAMBIA CON LA NUOVA LEGGE: l’obbligo di stabilizzazione degli
apprendisti a tempo indeterminato prima di stipulare nuovi contratti di tipo
formativo con questa tipologia, con il vincolo minimo del 20% sul totale,
rimane limitato alle aziende che abbiano oltre 50 dipendenti (la maggioranza
delle imprese e delle aziende in molti settori produttivi, è inferiore alle 10
- 12 unità lavorative…), rimane il vincolo pure della formazione che non potrà
essere fatta, come proposto originariamente, da società esterne di gradimento
delle aziende o con “formatori” interni, ma dovrà comunque essere gestita dalle
Regioni, anche se non ci sono sanzioni particolari nei casi in cui le Regioni
non provvedano nella tempistica prevista dalla legislazione, alla
predisposizione dei piani formativi per l’apprendistato. Ore di formazione
pagate al 35%...
Una sorta di utilizzo di forza lavoro
giovanile a “prezzi e costi stracciati”, soprattutto perché risultano
depotenziati i controlli ispettivi in merito al rispetto degli obblighi
formativi se previsti, alla dovuta disciplina del rispetto delle normative su
salute e sicurezza (anche per il divieto dal lavoro nelle fasce notturne) e
della retribuzione inferiore e il livello più basso rispetto agli altri
lavoratori con la qualifica a parità di mansioni e attività lavorativa.
RAPPORTI
DI LAVORO CON UTILIZZO DI CONTRATTI DI SOMMINISTRAZIONE (GIA’ “INTERINALE” O IN
AFFITTO) - ART. 20 COMMA 4 D. Lgs. 276/2003 : oltre alle
considerazioni già sviluppate in altri documenti e materiali fatte già dall’Usi
11 anni fa, sulla correttezza e opportunità del lavoro “in affitto” anche se
con la denominazione di “lavoro in somministrazione“ e le procedure di
acquisizione dei soggetti titolati a questa forma di reclutamento della forza
lavoro, al limite del “caporalato” una volta vietato dalla vecchia legge 1369
del 1960.
Nel testo approvato vi è l’estensione
della clausola della “acasualità”, cioè la mancanza di motivazioni e causali
per l’attivazione del contratto e del rapporto di lavoro, il vincolo dei
tre anni non si applica alle “somministrazioni” che non siano legate a
contratti a termine; il dipendente potrebbe però essere anche utilizzato,
nell’arco dei tre anni, anche con le “missioni” tipiche del rapporto di lavoro
ex interinale, in affitto oggi definito “in somministrazione”, se dovesse
verificarsi questo intreccio di rapporti e contratti, i periodi di “missione”
dello stesso dipendente per lo stesso datore di lavoro, sarebbero da cumularsi
con quelli da lavoratore-lavoratrice a tempo determinato veri e propri, per il
limite dei tre anni.
La semplificazione tra contratto a termine
e contratto “in somministrazione”, in affitto, per l’aspetto della mancanza di
indicazione della causalità del rapporto di lavoro a termine, gioverà molto
anche alle società che fanno questa forma di collocamento della forza lavoro
“in affitto”, con il riconoscimento della differente funzione socio economica
delle due tipologie (a termine e in somministrazione) con l’estensione anche
al contratto a termine della “acausalità”, già prevista e parzialmente
riconosciuta e introdotta da altre disposizioni europee, per il lavoro
temporaneo.
LA
SITUAZIONE DELL’ARTICOLO 5 DEL DECRETO LEGGE 34 DEL 20 MARZO 2014, vi è il
rinvio per la disciplina dei contratti di solidarietà ad altro provvedimento,
collegato alla prossima riforma degli “ammortizzatori sociali”
SEMPLIFICAZIONE
DELLE PROCEDURE E SGRAVI CONTRIBUTIVI: Altri aspetti della legge, già
inserite nel testo del decreto n° 34 del 20 marzo 2014, sono relativi alle
semplificazioni procedurali e alle misure in termini contributivi e fiscali,
altri elementi e fattori che aumentano ancora la natura di flessibilità per
questo tipo di rapporti di lavoro e delle relative forme contrattuali, che
saranno successivamente esplicitate con altre disposizioni attuative ed
applicative.
Alcune
considerazioni ulteriori, che saranno oggetto di approfondimenti
riguardano queste modifiche legislative se i rapporti di lavoro e i contratti
stipulati, avranno come soggetti MIGRANTI,
alle prese con l’intreccio con gli aspetti legislativi della Legge Bossi Fini,
che lega i contratti al permesso di soggiorno, oppure all’intreccio tra
contratto di lavoro e rapporto a termine con le misure di impiego nelle
Pubbliche Amministrazioni, dove le procedure di assunzione a tempo
indeterminato dopo i vari periodi di precariato a termine, si scontrano con il
vincolo previsto all’art. 97 della Costituzione (che prevede che si è assunti
per concorso pubblico) e anche sulla regolamentazione tra diritto europeo e il
D. Lgs. 368/2001, applicato a tutti i dipendenti pubblici e privati, con le
specificazioni del lavoro nel Pubblico Impiego (come per la gestione
dell’istituto delle ferie, come avviene nella Scuola Statale) e le nuove disposizioni introdotte con la
conversione in legge del Decreto Legge 34/2014.
BUONA LETTURA E
BUON SVILUPPO DEL CONFLITTO E
DELL’AUTODIFESA COLLETTIVA….